“Al di là dei sogni”

Il “Collettivo di scrittura creativa”, diretto dal prof. Cosimo Argentina e composto dalle studentesse  Giulia Corbetta, Giorgia Salpietro, Lucrezia Bottaro,Silvia Alberti, Monica Giulitti, Giorgia Minotti, è risultato vincitore al 1° posto del Concorso nazionale a.s. 2016/17 “Donne per la Pace” con il racconto “Al di là dei sogni” .

La medaglia d’oro è stata a loro consegnata, durante la  cerimonia di premiazione, il giorno 8 marzo 2017  a Roma, presso il palazzo del Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca , Valeria Fedeli che premieranno le delegazioni vincitrici.

Tantissimi complimenti alle nostre scrittrici !!

 

Motivazione della Giuria

“L’elaborato scritto a più mani si apprezza per il rigore stilistico e narrativo. La scelta del narratore multiplo esalta la univocità del messaggio in esso contenuto: la pace intesa come riappropriazione delle proprie libertà.  I personaggi femminili, legati in una proiezione onirica,  sono giovani donne che non vogliono cedere alla rassegnazione,  consapevoli della propria forza e della mancanza del ruolo femminile nei luoghi decisionali; affidano alle nuove generazioni la speranza di un mondo di pace: certe che oltre il sogno un’altra umanità sia possibile.”

 Racconto: Al di là dei sogni

La guerra di Crimea. Angelica ha studiato la guerra di Crimea in camera sua fino alle undici. È stanca e non vuole più sentir parlare di guerra fino al giorno dopo. Si infila nel letto caldo e subito

un miagolio le ricorda che deve trovare tra le coperte lo spazio anche per Luna. La gatta le si accoccola accanto. Quando la luce viene smorzata restano sul soffitto le stelle artificiali fluorescenti.

Il sonno sopraggiunge immediatamente e con esso tutti i pensieri nella sua testa svaniscono.

Non sa quanto tempo sia passato nel momento in cui si ritrova in piedi davanti allo specchio a osservare la sua immagine distorta da una crepa centrale.

“Aisha, sbrigati che è ora!”

“Sì, madre! Ancora un istante e arrivo!”

La cucina ha chiazze di muffa nelle intersezioni dei muri e sul tavolo sei tazze di tè con i manici sbreccati le ricordano l’amore di sua madre per i figli.

La strade di Aleppo sono disseminate di barricate e voragini. Aisha è costretta a percorrere la via più lunga, ma libera da bombe inesplose e mine antiuomo piazzate dalle fazioni in lotta. Sulla la

strada si affacciano i resti di interi quartieri ed edifici pericolanti. Mentre cammina a passo spedito, a pochi metri da lei crollano una grondaia e un pezzo di intonaco. Oltre la moschea scorge il posto

di blocco che supera mostrando al piantone i libri che reca su un braccio. Quando entra nella scuola, al di là del cancello divelto e con una delle inferriate finita venti metri più in là, si ritrova con le

quattro compagne superstiti ad aspettare l’insegnante di matematica per iniziare la lezione.

“Oggi non avrete matematica, temo!”

“Perché, signor direttore?”

“Una bomba, ragazze… la morte ha colpito ancora. Il vostro professore si trovava nella sua casa quando l’esplosione ha raso al suolo un intero isolato nella zona ovest della città. Abbiamo perso l’ennesimo insegnante”.

Aisha trattiene le lacrime. Era un bravo insegnante, quello di matematica. Non aveva voluto interrompere le lezioni nemmeno quando c’era stato un raid aereo della coalizione. Era sempre

presente e aveva una parola di conforto per tutte le allieve, soprattutto quelle che avevano perso un parente o un amico in questa folle guerra. Aisha sa che per ogni uomo che muore si apre un vuoto incalcolabile e che sarà sempre più difficile tentare di vivere un’esistenza normale tra le rovine della sua città che una volta era la più splendente del Medioriente.

Siede a un improvvisato banco fatto di assi e un piano spaccato e messo su alla meglio. Un cane entra nell’aula. È affamato e l’insegnante di arabo gli lancia un pezzo di focaccia dura. Il cane la

divora in un istante e poi torna a guardarli. Ma nessuno ha niente da mangiare e alla fine il cane va via.

Quando le lezioni terminano Aisha riprende la via di casa. Le ombre si allungano sui calcinacci e sulle macerie. Incontra Ibrahim. È segretamente innamorata di Ibrahim, ma la madre le ha spiegato che lui è un combattente sicché la vita del ragazzo non vale niente. Potrebbe essere morto domani mattina.

“ Torni a casa?”

“ Sì. È un po’ che non ti vedo”.

 

“ Sono stato sul fronte orientale. Si è versato molto sangue e provo orrore ogni volta che chiudo gli occhi. È un qualcosa che ti segna, Aisha, che non passa e non passerà mai. Eppure quando ero lì ho sparato e penso anche di aver ucciso. Ma non ne sono sicuro e questo mi salva”.

Negli occhi di Ibrahim non c’è più traccia di quel ragazzo delizioso che Aisha aveva conosciuto.

Sono diventati occhi duri e cattivi. Spietati. È così che la guerra fa cambiare gli occhi. Li rende duri e spietati.

Aisha pensa ancora a Ibrahim quando si accuccia nella sua brandina insieme ai fratelli. Per ognuno di loro un giaciglio stretto e scomodo, ma possono ritenersi già fortunati che hanno un posto

asciutto e al coperto dove dormire. Per molti non è così. Per la sua amica Fatima, ad esempio, questo non è stato possibile. La sua famiglia, cristiana, è stata scacciata dal quartiere e sembra che

Fatima sia stata rapita e portata nel deserto. Aisha pensa che non sia giusto quello che sta accadendo al suo popolo e con quel pensiero scivola nel sonno.

“La dottoressa Iman Kandouri, invitata quale delegata Onu per i diritti dell’uomo, ha facoltà di parlare”.

I membri del consiglio di sicurezza le incutono un certo terrore. Sono distanti, grassi e risoluti.

Parlano di pace. Parlano, certo, parlano e parlano ancora, ma non hanno mai messo piede in un territorio martoriato dalla guerra. Non sanno cosa sia la privazione della pace.    

“ Gentili membri del consiglio…”

Le mancano le parole. Si sente in debito di ossigeno, la testa le gira. È stata scelta per predisporre à un discorso e tenerlo davanti ai massimi esponenti delle Nazioni Unite. C’è anche il segretario

generale.

“ Ehm… signori! Io non sono molto brava con le parole. Certo ho studiato a costo di grandi sacrifici miei, della mia famiglia e degli insegnanti che mi hanno istruita mentre su di noi piovevano le

bombe. Molte mie compagne di scuola sono morte sotto i bombardamenti, altre come Fatima sono rimaste vittime degli attentati, dei rapimenti. Dove non c’è la pace il primo effetto è che la vita non vale niente. Niente. Si può morire con una facilità estrema. È quasi più difficile restare in vita che morire. Non si muore per cause naturali, ma per le epidemie, le schegge delle bombe e i proiettili vaganti. La casa non è sicura. Il letto nemmeno. La scuola è a rischio. Le strade, i negozi, fare una

semplice passeggiata può essere fatale. Ma sto parlando molto e in questo credo voi siate molto più bravi di me. Perciò le parole le lascio a voi. Io sono qui per un altro motivo. Sono qui per puntare un dito accusatore contro chiunque può fare qualcosa per ristabilire la pace e non fa nulla se non parlare, parlare, parlare…”

I membri delle Nazioni Unite si agitano sulle sedie con i loro traduttori simultanei che toccano nervosamente. Sono a disagio davanti alla sua semplicità. Non sanno come reagire davanti

all’assenza di giri di parole, davanti all’accusa diretta proferita da una giovane vittima della guerra.

Iman ritrova il coraggio di parlare proprio osservando il disagio di chi le sta davanti. È come se fossero loro a dover dare un senso a quell’incontro e non lei. Lei è lì in attesa di risposte, non è lì

per chiedere l’elemosina.

“ Voi vi riunite e cercate soluzioni per la pace. I vostri soldati si sentono investiti del ruolo di pacificatori, creano corridoi umanitari, territori cuscinetto. Voi dichiarate il vostro impegno per la pace, ma nel frattempo il mio popolo muore di fame e dilaniato dalle bombe. Se per voi la pace è una parola e basta visto che quando ritornate alle vostre case e alle vostre famiglie ritrovate un letto caldo, pasti, bambini felici che vi saltano in braccio e magari una tivù e un panorama tranquillo sullo sfondo, per me e il mio popolo la parola pace è la illusione della fine di un incubo. Un miraggio. Per me la pace è stare coi miei fratelli più piccoli a giocare nello sterrato davanti casa. È non vivere nell’angoscia che i fratelli più grandi non vengano uccisi, rapiti o rastrellati per farne adolescenti soldato. La pace per noi è la restituzione di un’infanzia rubata. La fine di una violenza non solo fisica perché nessuno di noi è al sicuro nemmeno nei sogni. Sappiamo che i sogni possono essere un rifugio, ma più di una mia compagna è passata dai sogni belli, pacifici e sorridenti alla morte. Semplicemente in quel caso gli occhi non si aprono più. E invece noi vogliamo aprire gli occhi e trovarci di fronte la nostra vita. Pace: bellissima parola. Ma se resta una parola è squallore e ignominia, è detestabile illusione sventagliata su un popolo in ginocchio. Io non la voglio più

sentire sulle vostre labbra. Che la si nomini di meno e che si faccia qualcosa di tangibile. Voi siete persone importanti e io sono una ragazza che vive in un quartiere in rovina di una città ai margini del mondo che conta. Ma la nostra pace sarebbe per voi una piccola vittoria. Potreste svegliarvi al mattino con la coscienza sollevata sapendo che con un gesto avete ridato dignità a un popolo e avete portato un senso di conforto, epifania e vitalità in un luogo divenuto oscuro, malvagio e attraversato da un remoto male da cui è difficile sganciarsi”.

Iman guarda i delegati. I membri stanno ascoltando muti. Se all’inizio scambiavano qualche

chiacchiera tra loro o davano rapide sbirciate ai telefonini, adesso sono lì, immobili, colpevolizzati

nella loro accidiosa impotenza.

Un uomo prende la parola. È biondo, pulito, i capelli in ordine. Parla un perfetto inglese.

“ Noi promettiamo che faremo tutto quello che è in nostro pot…”

Iman scuote la testa. Si alza dalla sedia imbottita su cui stava a disagio perché non le accadeva da

tempo di sedere su qualcosa di così morbido.

“ No. Per favore! Il tempo delle rassicurazioni è finito! Lei ha figlie?”

L’esponente delle Nazioni Unite si guarda intorno e poi fa cenno di sì.

“ Due. Una di diciannove anni e una di tredici!”

“ Dove vivono le sue figlie?”

“ A Londra!”

Iman ora ha uno sguardo che allaga la platea per poi confluire negli occhi del delegato.

“ L’assenza di pace tra la mia gente sta decimando intere generazioni. E sono le donne a pagare il prezzo più alto. Stupri, assassinii, madri che piangono i figli, ragazze abbandonate, rapite, violate. Le donne sono l’anello che l’assenza di pace sta cercando di spezzare e le garantisco che ci riuscirà se voi non fermerete tutto questo. Le sue figlie… lei cosa desidera per le sue figlie?”

Il delegato non sa come dire. Riflette per una risposta, ma Iman riprende a parlare.

“ Magari lei desidera qualcosa di importante, la salute, incontri con persone giuste, tranquillità, un futuro fatto di una famiglia serena e successi professionali e umani. In questo tra lei e mia madre non ci sono tante differenze. Mia madre però pensa quello che pensa lei tra le bombe e in mezzo all’odio!”

Il delegato sfugge lo sguardo di Iman. Non è in grado di reggerlo un secondo di più. La sua mente vola verso Helen, la figlia a cui è legatissimo dopo la morte della moglie. La figlia che partecipa a marce per la pace e da pochi mesi è entrata a far parte di un’associazione di volontari che organizza aiuti umanitari per le popolazioni devastate dalla guerra.

In quello stesso istante, dall’altra parte del pianeta, Helen sta dormendo. Nei suoi sogni si insinua il volto di una ragazza. Poi l’immagine del sogno si allarga. La ragazza è una siriana e le sta mostrando le macerie della sua casa, i corpi straziati dei suoi fratelli e le sta parlando una lingua che non capisce, ma di cui afferra il senso. È la pace che desidera. Helen le risponde in inglese, le dice che sa cosa deve fare, che deve avere fiducia nelle nuove generazioni. La ragazza si apre a un piccolo delicato sorriso.

I sogni si spengono, le sensazioni rimangono, l’idea di fare in modo che una parola non resti tale, ma si trasformi in realtà germogliano. E dietro una sola parola, PACE, la speranza di una nuova Era.

Collettivo laboratorio di scrittura creativa Primo Levi Seregno

Comunicazione-Presidenza-del-Consiglio-Dipartimento-Pari-opportunità.pdf